Da diversi anni si sente parlare di una particolare categoria di persone raggruppate nel termine inglese “Influencer”. Influencer significa letteralmente colui che influenza e si riferisce ad un individuo, generalmente popolare sulla rete, capace grazie a questo, di indirizzare le scelte e i comportamenti di un particolare gruppo di utenti e potenziali consumatori. Un esempio su tutti è Chiara Ferragni, che non penso necessiti di presentazioni. Come lei ce ne sono molti altri e rappresentano, a mio parere, una diretta conseguenza dell’avvento dei social media come Facebook, Instagram, Youtube e quant’altro.
Di primo acchito quando si sente parlare di “influenzare le scelte e i comportamenti delle altre persone” è logico che non venga in mente nulla di positivo, abituati come siamo a tutto ciò che accade nel mondo. Questo lo posso capire, ma faccio fatica a sentire certe critiche rivolte a questi personaggi che, secondo me, sono sempre frutto di pensieri esageratamente semplicistici. Quando si sente dire che l’influencer non sia un vero lavoro o che sia una diretta conseguenza della deriva di questa società o che, peggio ancora, gli influencer siano solo un branco di incompetenti senza talento arrivati ad essere conosciuti per colpi di fortuna.
Potremmo discutere per ore su quali siano i “veri lavori” e se volessimo puntarla sulla “fatica fisica” ne verrebbe fuori che, molto spesso, queste critiche non provengano esattamente da persone che lavorano in miniera. Penso che il problema di diversi italiani sia quello di essere affetti da una gravissima sindrome, la SDRC sindrome del rompi coglioni. Quelli che ne sono affetti sono costretti a giudicare e sparare a zero su tutto e su tutti. La lamentela fine a sé stessa è il loro pane quotidiano. Tutti questi giudizi hanno in comune il fatto di essere espressi senza sapere un accidente della persona che stanno prendendo di mira. Non sanno che, molto spesso, gli influencer sono anche influencer e non solo quello, non conoscono quello che fanno e come lo fanno, non conoscono cosa abbiano fatto per arrivare dove sono arrivati. Non comprendono che dietro ogni cosa, anche quella che pare la più stupida, c’è sempre un lavoro che va pensato, ragionato e organizzato. Creare un contenuto che possa piacere e che possa essere seguito da tante persone non è semplice e, al di là che piaccia o meno personalmente, penso che il merito del successo vada in ogni caso dato. È logico che un mondo di soli influencer non sarebbe sostenibile, altrimenti chi mi potrebbe costruire le pedane per superare le barriere architettoniche? Però che male c’è se accanto ad altre mansioni come il muratore, il medico, il politico, il calciatore, l’attore, il musicista eccettera ci sono anche loro? È assolutamente ragionevole che con i rapidi cambiamenti che sta affrontando la nostra società nascano anche dei nuovi mestieri come questo.
Tornando al discorso “dell’influenzare” sono convinto, però, che si possa fare anche in maniera positiva. I social e chi li utilizza possono riuscire ad ispirare le persone a compiere dei cambiamenti positivi di mentalità. Anche riguardo a temi delicati come quello della disabilità. Ecco perché vi voglio parlare di un personaggio che mi sta particolarmente simpatico. È una ragazza, è una sportiva, ma anche una influencer e, a mio parere, rappresenta un esempio lampante di come una persona possa incarnare un meraviglioso e potente messaggio.
Sto parlando di Bebe Vio.
Per chi non la dovesse conoscere Bebe, il cui vero nome è Beatrice, è una ragazza di 23 anni. Vive a Mogliano Veneto ed è campionessa paralimpica di fioretto. All’età di 11 anni fu colpita da una grave forma di meningite che rese necessaria l’amputazione di entrambi gli avambracci e le gambe. Grazie a delle protesi Beatrice non solo è potuta tornare a camminare e a utilizzare nuovamente gli oggetti, ma è addirittura riuscita a continuare con il suo sport preferito, che già praticava prima della malattia, riuscendo a vincere niente meno che 8 medaglie d’oro.
È sufficiente guardarla negli occhi Beatrice, in quei vivaci occhi azzurri, per capire subito che ha uno sguardo diverso.
Non è costruita, non è finta, ma è esattamente così come la vedi e la sincerità della sua persona traspare e colpisce subito.
Penso che le persone abbiamo voglia di realtà, di verità. Siamo bombardati ogni giorno dalla finzione: la troviamo nella tv, nella pubblicità, nelle parole di chi ci governa. Ci siamo talmente abituati che tante volte ci passiamo addirittura sopra, senza sapere che così facendo ci allontananiamo sempre di più da ciò che siamo veramente. Ecco perché in tanti seguono Bebe, perché è vera. Vedendola non pensi nemmeno per un istante di provare compassione per lei, perché per lei le sue protesi sono la sua realtà e il suo scopo è vivere, non piangersi addosso. Ovviamente ha affrontato anche momenti veramente duri. Uno tra tutti, come ha raccontato lei stessa durante una delle sue numerose interviste, è accaduto poco tempo dopo essere rincasata dalla degenza in ospedale. Le cicatrici conseguenti alla malattia erano ancora aperte e Beatrice necessitava di medicazioni continue. La sua famiglia si prendeva cura di lei. Un giorno che con lei era presente il papà, lo sconforto si fece sentire. La paura e la tristezza nel dover affrontare una vita di quel tipo, insieme al dolore fisico provato, fecero prendere in considerazione per un momento alla nostra Bebe l’idea di togliersi la vita. In quel momento il papà, senza scomporsi di fronte alla crisi della figlia, la mise di fronte alla pura e semplice verità: non sarebbe riuscita fisicamente a togliersi la vita. Certo, avrebbe potuto lasciarsi cadere dal letto, ma in questo modo avrebbe avuto solo ulteriore dolore senza riuscire nell’intento. A quel punto sarebbe stato più conveniente chiedere direttamente a lui di portarla alla finestra e di lanciarla giù. Ora però doveva smetterla con quelle fesserie e rendersi conto che “la vita è una figata”.
Quell’ironia del padre, all’apparenza così fuori luogo in un momento del genere, unita alla frase “la vita è una figata” fecero scattare qualcosa nella testa di Bebe. Da lì in poi il suicidio non era più un opzione. Bisognava semplicemente vivere, cercando di basare ogni giorno della propria vita sul quel concetto: “la vita è una figata”. Un caso che da quel momento in poi Beatrice, con il tempo, sia riuscita letteralmente ad alzarsi sulle sue gambe?
Ascoltando le sue interviste una frase che Bebe ha detto mi è rimasta scolpita dentro. La cito testualmente: “Se mi trucco lo faccio per coprire i brufoli e non le mie cicatrici…”. Questa frase mi ha fatto pensare
Le sue cicatrici non rappresentano delle imperfezioni che devono essere corrette, ma fanno parte di lei stessa, della sua normalità.
Ancora una volta questo ci testimonia che passare tutta la vita a cercare la normalità come un concetto a sé stante valido per tutte le persone di questo mondo, equivale a sprecarla. Siamo noi i creatori della nostra normalità che è valida per noi stessi e non necessariamente anche per gli altri. Ecco allora che le nostre cicatrici, invece di rappresentare una anormalità da nascondere, possono essere trasformate in un altro modo per definire chi siamo. Nel mostrarle ci vuole coraggio e una grande forza e Bebe lo fa sempre senza mai scordarsi l’umiltà e con una grande dose di ironia e simpatia.
Fortunatamente il modo di concepire la disabilità sta cambiando e lo fa anche per merito di questi “influencer positivi” come appunto Bebe Vio e sicuramente tanti altri.
È anche vero però che tutte queste informazioni sul fantastico mondo dei disabili possano portare a volte un po’ di confusione e già sento, in lontananza, qualcuno chiedere: “però Mattia dopo tutto questo con sti disabili come ci dobbiamo comportare? Perché se lo facciamo con pietà si incazzano, se li giudichiamo troppo normali si incazzano, se li aiutiamo troppo si incazzano e se non lo facciamo, beh hai capito.”
Fermo restando che probabilmente un manuale di istruzioni per avere a che fare con i diversamente abili non esisterà mai mi sento di rispondere così: trattateci sempre come esseri umani, quindi con rispetto ovviamente.
Se facciamo gli stronzi rispondete a tono perché disabile = buono è una cagata pazzesca.
Non menateci, perché nella maggioranza dei casi non potremmo rendervele. Non rubateci il parcheggio perché allora si ci incazziamo sul serio. Non abbiate paura di fare delle gaffe. Se allungate la mano per salutarci (adesso come adesso il gomito) e vi accorgete che in realtà avete fatto la cazzata perché noi non possiamo rispondere al saluto, non mortificatevi. Sarebbe stato peggio chiederci di fare una campestre e in più un disabile che si rispetti sarà sempre divertito e mai offeso.
Adesso che vi ho dato queste dritte posso anche chiudere l’articolo. In questo periodo di “influenze” non troppo positive, cerchiamo di farci influenzare un po’ tutti da persone come Bebe Vio. Se ci rendiamo conto che, come dice sempre la nostra Beatrice, “la vita è una figata” o che perlomeno la può diventare e che questo dipende solo ed esclusivamente da noi, i contagi da SDRC caleranno e potremmo vivere veramente in un posto migliore.
Mattia Mutti