Settembre. L’inizio della scuola. Se volessi stilare una classifica in cui inserire le maggiori sofferenze che ho provato nella mia vita, di certo la depressione pre inizio scuola occuperebbe uno dei primi posti. La consapevolezza di essere costretto a rinunciare all’ozio dei mesi estivi per tornare a fare cose che avrei ben voluto evitare, soprattutto nel mio periodo adolescenziale, era in grado di distruggermi. Da qui si evince la mia relazione complicata con la scuola: rose e fiori fino alle medie, colata a picco durante le superiori.
Ma non è questo quello di cui voglio parlare, non tanto dell’inizio della scuola, ma piuttosto della conclusione della mia istruzione superiore: culminata dopo 5 anni di liceo scientifico con il celeberrimo esame di maturità. Parliamo di ormai 9 anni fa: l’estate del 2010.
Secondo voi, che ormai cominciate a conoscermi, il mio poteva essere un esame di maturità “normale”?
Domanda retorica in quanto la risposta è ovviamente un secco e poderoso: NO.
Nella mia vita di incidenti ce ne sono stati diversi, i due maggiori sono stati di certo la frattura del femore, di cui ho già parlato in uno dei miei precedenti articoli, e la rottura di un dente. Allorché la domanda più immediata che mi potreste fare potrebbe essere:” Ma sei seduto sulla carrozzina! Come caspita hai fatto a spaccarti un dente?!” Sarebbe una domanda più che lecita considerando che non mi sono mai dilettato in gare di skateboard, e che la mia attività agonistica si limita al “basculamento della carrozzina”.
Credo sia con la forza di gravità che ho i problemi più grossi.
Questo di per sé non avrebbe nulla a che fare con il mio esame di maturità, se non avessi deciso di “buttarmi giù un dente” poco tempo prima dell’esame ORALE davanti alla commissione.
Non mi soffermerò molto sulla dinamica dell’incidente in quanto consiste semplicemente nel mio corpo che vola giù dalla carrozzina schiantandosi sull’asfalto.
Vi parlerò della situazione pregressa all’incidente: era una sera di luglio, ero a casa con amici. Mi ricordo benissimo che non avevo alcuna voglia di uscire, anche perché ero in quello stato del: “tornerò a vivere come un essere umano dopo che sto esame di maturità sarà finito”. Avevo infatti già sostenuto le tre prove scritte, mi mancava solo l’orale. Quasi fosse un presagio alla “Final Destination” qualcosa mi stava suggerendo di restare a casa, anche se il mio destino probabilmente era già scritto. Infatti dopo alcune insistenze di uscire ad andare a bere qualcosa da parte di una mia amica (è risaputa la mia semplicissima corruttibilità di fronte al genere femminile) partí riluttante insieme agli altri alla volta del Bar Castello: luogo cardine della movida cerlonghina.
Vi dico solo che al Castello non ci arrivai, lo vidi solo in lontananza
Quello che vidi fu solo l’avvicinarsi rapido e inesorabile dell’asfalto alla mia faccia. Feci solo in tempo a sentire il mio cervello letteralmente dirmi: “Mattia preparati perché l’impatto sarà duro”.
Duro è un eufemismo. Ho parlato prima di “rottura” di un dente, ma è tecnicamente errato in quanto il mio incisivo sinistro uscì interamente dal suo luogo preposto con tanto di radice. Tanto che, in seguito, al cospetto del dentista, pure costui stava per alzare le mani dicendo “ragazzi io mi fermo qui”. In anni di lavoro non si era mai trovato di fronte a una cosa del genere. Non vi dico la mia faccia, unita alla preoccupazione che il dentista potesse staccare il suo attestato dal muro e cambiare direttamente mestiere. Fortunatamente non successe.
Tornando all’incidente i miei amici preoccupatissimi e scioccati da ciò che era appena accaduto mi rimisero sulla carrozzina. Ancora intontito e in confusione per la botta, con la bocca che pareva quella di Rocky Balboa dopo i pugni di Ivan Drago non mi misi a urlare “Adrianaaa”, ma bensì constatai l’accaduto con una frase che è rimasta nella storia della mia compagnia: “Ragaffi mi fono fpaccato la faccia”. Ebbene si: parlavo come Jovanotti. Devo dire che la frase mi uscì in modo piuttosto pacato, nonostante la situazione non fosse proprio così rosea.
Venni riaccompagnato a casa e ad aspettarmi c’era mia madre. Situazione piuttosto singolare un figlio disabile che torna a casa da sua madre con il proprio dente in mano. Sarebbe stato più semplice dire: “Mamma sono tornato a camminare”.
Fino a quel momento la botta calda mi aveva evitato la maggior parte del dolore, ma una volta tornato a casa arrivò tutto in un colpo e dovetti andare a dormire più drogato di un cavallo prendendo antidolorifici come se non ci fosse un domani.
Avevo talmente tanta voglia di fuggire dal Liceo Gonzaga che in testa non mi balenò nemmeno per un secondo l’idea di boicottare l’esame orale a causa dell’incidente. Così arrivò quel fatidico giorno di luglio che faceva da conclusione a quei cinque lunghi anni.
Lo affrontai così: con una voragine nel centro esatto del mio sorriso.
Ricordo perfettamente la mia entrata nella classe in cui era riunita la commissione. Quel cavo del proiettore che aveva la scopo di mostare la presentazione della tesina, proprio lì, beffardo in mezzo alla stanza. La mia carrozzina che tentennò due volte prima di riuscire a oltrepassarlo. Il mio pensiero che in quel frangente fu: “Ottimo inizio direi”. Poi la domanda dei miei insegnanti: “Ma Mattia che ti è successo? Risposi con una proporzione: “carrozzina sta a caduta come asfalto sta a dente”. L’apertura della mia bocca in stile squalo bianco per mostrare che lì una volta c’era un dente e ora, magicamente, non c’era più. Poi finalmente l’inizio dell’esame: la presentazione della tesina, le domande della commissione e il momento di parlare in inglese che, senza una paletta, ricordava fortemente Duffy Duck. Ed ecco la tanto attesa conclusione.
Ora non posso fare altro che tornare serio perché anche se ci vuole un po’ di tempo, dopo le vicissitudini, il protagonista arriva al lieto fine. Non sta certo nel voto perché quello è solo un numero che non ha niente a che vedere con quello che sei. È invece celato negli istanti che segueno quelle semplici parole che chiudono l’esame: “Abbiamo finito. Può andare”. È nel minuscolo tragitto a ritroso per uscire da quella stanza. È quell’ondata di leggerezza e libertà che ti pervade quando sei consapevole di aver concluso un importante capitolo della tua vita. È nelle lacrime di tua madre che ti aspetta fuori, che piange sempre un po’ troppo facilmente, ma va bene così. Non sai ancora come hai finito, ma non ti importa perché sai di non essere più la stessa persona che eri un istante prima.
Sono entrato in carrozzina, senza un dente e ne sono uscito in piedi con un sorriso smagliante.
Tutto quello che era successo prima, tutto quello che poteva accadere dopo, i miei problemi e pensieri non avevano più alcun significato. Era tutto sparito. Come la mia paletta, che detto tra noi non so più che fine abbia fatto: forse l’ha tenuta il mio dentista e ogni tanto ne parlerà ancora del caso più strano che abbia mai affrontato.
C’è chi ha lasciato un pezzo di cuore alle superiori, io che volevo essere ancora più generoso ci ho lasciato anche un dente.
Ringrazio la mia amica Giada Breviglieri per la creazione dell’immagine.
Mattia Mutti