Conoscete il paradosso del gatto di Schrödinger? Si tratta di un esperimento mentale, ideato dal fisico Erwin Schrödinger. Ve lo spiego brevemente: un gatto viene rinchiuso in una scatola. In questa scatola è presente un congegno particolare che, in maniera del tutto casuale, in un’ora potrebbe liberare o meno una quantità di veleno. Si potrebbero verificare così 2 scenari: se il veleno viene liberato il gatto muore, al contrario il gatto vive. L’esperimento sostiene che occorra un “osservatore” (un individuo dotato di intelletto ad esempio) che, passata un’ora, vada ad accertarsi dello stato del gatto. Fino a quando questo non succede le due possibilità (gatto vivo e gatto morto) coesistono nello stesso momento.
Fatemi prendere in prestito questo esperimento che, per l’occasione, verrà opportunamente chiamato “il paradosso del disabile di Muttinger”.
Si prenda un disabile dotato di carrozzina elettrica. Lo si ponga non in una scatola, bensì ad una festa di laurea. Si inserisca nella sua circolazione sanguigna dell’etanolo. Non troppo, ma il giusto. A questo punto occorre che gli amici del suddetto disabile notino una ragazza seduta da sola su una panchina, a pochi metri da lì, intenta a guardare il suo telefono già da diversi minuti.
Specifico: ragazza completamente sconosciuta sia al disabile che ai suoi amici.
Ed ecco la svolta! Sarà stata la goliardia del momento, l’alcool presente alla festa che è risaputo faccia partorire le migliori idee (o forse no?) o semplicemente perché, proporre qualcosa al suddetto disabile alle volte, é come “invitare un’oca a bere”; sta di fatto che dagli amici parte la proposta: “Mattia, ma perché non provi ad interagire con quella ragazza laggiù? Non vedi che è tutta sola?”. Da quel momento immaginate una tempesta nel cervello del disabile. L’idea era apparentemente scherzosa e anche un po’ senza senso, ma per quale motivo avrei dovuto rifiutare di farlo a prescindere? C’era, forse, qualcosa di male nel fare una cosa del genere? Da disabile una cosa così non si può fare? Non dovevo dirle niente di scabroso o fare delle grandi cose. Sarebbe stato sufficiente un saluto o sputare fuori due parole, magari parlare del tempo. Oppure dirle una mezza verità: “Guarda, sto facendo una scommessa con i miei amici, posso fingere di aver avuto il tuo numero?”. Nella peggiore delle ipotesi avrei potuto essere ignorato, essere mandato a cagare oppure essere allontanato dall’agriturismo per molestie. O ancora avrei potuto giocare il mio asso nella manica (che con le mie amiche ad esempio, non funziona mai): puntare sul pietismo e fare la parte del povero disabile bisognoso d’amore. Me la sarei potuta cavare con un sorriso forzato o anche, perché no, facendole scappare una risata. Oppure avrei potuto arrivare di fronte a lei, bloccarmi e non emettere alcun suono. Paralizzato dall’ansia come uno stoccafisso. Insomma, tutti questi scenari potevano essere ordinati in due grandi gruppi: uno con esito positivo e l’altro con esito negativo. Esattamente come il gatto qui sopra, anche se in maniera meno drastica (niente veleno per il disabile).
Penso che, arrivati a questo punto, forse alcuni miei lettori si saranno persi. O forse li avevo già persi alla prima riga. D’altro canto ho scomodato la fisica quantistica, ho parlato di una festa di laurea e infine di uno stupido episodio di cui non vi ho ancora svelato il finale (furbo neh?). Forse sono io che amo trovare dei significati nelle cose, anche quando, probabilmente, non ci sono. Però, questa storiella, al di là del fatto che riguarda me, parla anche di altro. Parla di coraggio. Quel coraggio particolare, mischiato a quel pizzico di follia, che, solitamente, viene definito come prerogativa dei giovani. Sinceramente non ho mai capito perché ad un certo punto della vita questo tipo di coraggio debba per forza svanire. Non sarebbe bello poterlo avere fino all’ultimo giorno su questa terra? Perché è lì che si nasconde il senso della vita. In quel brivido di buttarsi nel vuoto senza sapere esattamente come andrà a finire. Se l’esperimento mentale di cui ho parlato a inizio articolo ci può insegnare qualcosa nella nostra realtà quotidiana è proprio questo: al di là di tutte le previsioni che si possono fare se si vuol sapere se questo gatto è vivo o morto si è costretti a guardare nella scatola. Per guardare ci vuole coraggio. Se vuoi sapere come andrà una certa cosa la devi provare. Ho detto un’ovvietà, sono d’accordo. Eppure quante cose evitiamo di fare per paura? Paura di sbagliare, di fallire, di non essere all’altezza. Paura di quello che potrebbero pensare gli altri, paura dell’imbarazzo e della vergogna. Paura di disturbare e di infastidire la gente. Inconsapevoli che quella energia su cui ci stiamo focalizzando, sta contribuendo a far indirizzare gli eventi esattamente nel modo in cui temiamo. Un modo subdolo che il cervello utilizza per dar ragione a sé stesso. Così che possa dire: “Hai visto? Non dovevi farlo! Lo sapevo che sarebbe finità così!”. Siamo talmente ancorati all’idea di avere tutto sotto controllo sempre e comunque dal diventare dipendenti dal controllo. Eppure non fa molta più paura una vita scontata, prevedibile, in cui non accade nulla di diverso ed è sempre tutto uguale? A me, sinceramente, sì.
Ecco, finisce sempre così. Sto parlando di una cosa e poi inizio a filosofeggiare in modo caotico e incontrollato e non mi fermo più. Ma ora, torniamo alla festa di laurea. Potevo veramente temere una semplice interazione con un altro essere umano, anche se sconosciuto? Assolutamente no perché ne andava del mio onore! Caricato dal vino e con lo sguardo lucido da manicomio mi decisi ad andare dalla ragazza sulla panchina. Guardando i miei amici emisi la sentenza: “Mettetemi su il braccio sul bracciolo che devo guidare la carrozzina!”. Con la mente piena di gatti vivi e morti che roteavano andai incontro al mio destino! Iniziai a fare la retromarcia per allontanarmi dal mio tavolo quando si manifestó un terzo scenario a cui non avevo pensato. Un’ombra alle mie spalle e un suono di passi: la ragazza tornò al suo tavolo con le persone con cui era lì. Una volta seduta ritirò fuori il cellulare e, sconsolata, si mise di nuovo a messaggiare. Ebbene sì: non essendoci più le condizioni propizie l’esperimento fallì. Sono convinto che, a questo punto, un “vaffa” di tutti i lettori non me lo toglierà nessuno.
Forse qualcuno penserà che sia meglio così e che, in questo modo, il destino mi abbia evitato una colossale figura di merda. Può darsi, ma potreste averne la certezza assoluta? In tutto questo tornai a casa con la piacevole convinzione che, comunque, se la ragazza fosse rimasta sulla panchina, avrei avuto il coraggio di andarci a parlare senza sapere come sarebbe andata a finire.
A te lettore che sei riuscito ad arrivare in fondo a tutta questa mia “sbrodolata” voglio porgere quest’ultima domanda:
Secondo te nella vita è meglio essere “normale” e triste o un po’ folle, ma felice?
Mattia Mutti