Il Re Leone


C’era una volta una videocassetta.

È stata una delle prime che ho ricevuto, inciso su quel nastro c’era quello che tutt’ora considero il mio film d’animazione preferito: “Il Re Leone“. Letteralmente consumai la videocassetta a furia di rivederlo.
Non mi stancava mai. Poteva essere anche la trentesima volta, ma tutte le volte che quella cassetta veniva inserita nel videoregistratore iniziava la magia. Lo guardavo tutto! Dall’inizio alla fine, con quell’entusiasmo tipicamente infantile di chi conosce poco o nulla, ma sa già come fare per vivere intensamente.
Mi colpisce sempre che, di fronte allo stesso film visto in momenti diversi della vita, si recepiscano cose diverse. Perché sono io a non essere più la stessa persona di prima.
Stiamo parlando di un film di animazione, ma non di un film facile; soprattutto per i bambini. Un cucciolo di leone di nome Simba si ritrova ad affrontare la morte del padre, il re Mufasa, di cui verrà ingiustamente incolpato. Sarà così costretto a fuggire dal suo luogo di origine, per ricominciare a vivere da un’altra parte. Sfido chiunque faccia parte della generazione di chi ha visto “Il Re Leone” da bambino, a non aver pianto almeno una volta di fronte alla morte di Mufasa: arrivando addirittura a velocizzare la cassetta per saltare completamente la scena.
Riguardare un film più e più volte durante la propria vita è un percorso in evoluzione: io con “Il Re Leone” ho iniziato a tre anni e quello che mi colpiva di più all’inizio erano le animazioni, le immagini, i colori. Non potevo ancora capire interamente i dialoghi. Poi però ogni qualvolta lo riguardavo aggiungevo sempre più pezzi: come se fossero le tessere di un grande puzzle. Questo puzzle va oltre la trama stessa del film quando comincio ad associarci emozioni che ho provato in particolari momenti della vita.
C’è una scena in particolare che mi ha sempre dato una grande emozione. Ovvero quando Simba incontra lo spirito del padre Mufasa che, doppiato nella versione italiana dal grande Vittorio Gassman, parla al figlio, ormai divenuto adulto. Le sue parole rappresentano per me il cuore di tutto il film. Le cito testualmente:

“Guarda dentro te stesso Simba. Tu sei molto più di quello che sei diventato e devi trovare il tuo posto nel cerchio della vita”.

Mi ricordo perfettamente che passati da poco i vent’anni ripresi in mano questa pellicola guardandola al computer. Era da tempo che non lo guardavo. Penso che un film possa a tutti gli effetti essere definito un capolavoro quando è in grado di smuoverti qualcosa dentro. Arrivata quella scena infatti non riuscì a trattenere le lacrime. Lacrime che erano ferme lì da diverso tempo. Come un fiume in piena si fecero strada salendo direttamente dal mio cuore fino agli occhi. Pulendo e purificando quel dolore sedimentato che un po’ tutti ci portiamo dentro.
Sarà forse questo il motivo per cui le lacrime sono salate?
Conoscere sé stessi e attraverso questo processo in continua crescita, trovare il proprio posto in una vita talvolta caotica e disordinata. Simba ci insegna bene, che non si può trovare il proprio posto nel cerchio della vita se prima non si riesce a fare i conti con il proprio passato. Quel passato da cui è molto più semplice scappare poiché così doloroso da affrontare. Questo però è quello che serve se vogliamo che la nostra vita non sia sempre e solo una riproposizione del nostro passato, ma possa aprire le porte verso un nuovo e rigoglioso futuro.
Io Simba lo vedo tutti i giorni. Attaccato alla vetrina di camera mia c’è un bellissimo disegno che lo rappresenta fatto da mia sorella e regalatomi per il mio compleanno. Ogni volta che lo guardo sento rieccheggiare nella mia testa le bellissime parole di Mufasa.

Non posso fare altro che ringraziare questo bellissimo film perché se sono “un po’ di più di quello che sono diventato” di certo è anche merito suo.

Mattia Mutti