La casa del pinguino Vol. 1

Dato l’apprezzamento riservato al precedente articolo, anche questa volta utilizzerò la divisione in categorie per condividere con voi alcuni importanti episodi, accaduti a casa mia (in realtà è casa di mia nonna), durante i ritrovi con la mia compagnia. Questi episodi copriranno un arco temporale piuttosto vasto che va dalla adolescenza fino ai giorni nostri.
Di cose da raccontare ne ho parecchie quindi, per evitare di tediarvi con un articolo più lungo della Bibbia, ho deciso di dividerlo in tre volumi. Una vera e propria trilogia che avrete modo di concludere solo tra due mesi (per tenere fede al mio essere fancazzista).
Diamo la colpa al periodo difficile, al fatto che sembra di vivere ancora in una versione distopica di “covid comanda color” oppure, semplicemente, all’età che avanza, ma mi rendo conto che spesso mi ritrovo a fare il nostalgico (vedi articolo sul liceo). Quindi, in stile nonnetto (in carrozzina di default) che parla dei “suoi tempi” diamo inizio ai ricordi con la prima parte di questo mega articolo:

 1. Una sola casa 3 nomi

Dagli albori della compagnia fino ad oggi, casa mia è stata ed è definita in almeno tre modi diversi. Si parte dallo standard “casa di Matty” e fin qui è molto facile capirne il motivo (se mettete una “i” al posto della “y”, probabilmente, risulta quello che è veramente). Poi, nel tempo, si è passati a definirla la “casa del popolo”. Questo nome, che sembra essere stato preso direttamente da un trattato di Karl Marx, è stato coniato dai miei amici e definisce il momento esatto in cui la mia dimora è diventata, a tutti gli effetti, un porto di mare. Per entrare nella nostra compagnia, infatti, c’era necessariamente da sostare alla “casa del popolo”, il punto di ritrovo cardine negli anni della nostra adolescenza. Non so dirvi la moltitudine di persone che ho visto varcare la soglia della mia camera. Dovrei fare uno sforzo mnemonico per riuscire a ricordarle tutte e sto parlando, comunque, solo di ragazzi intorno alla nostra età. Dagli amici più vicini che non mancavano mai, agli amici di amici, ai conoscenti, a quelli che passavano solo ogni tanto per fare un saluto. In più, accadeva spesso che costoro si portassero appresso anche i loro fidanzati e fidanzate del momento. Piano piano la compagnia aggiungeva sempre più membri e diventava, via via, sempre più numerosa. Da qui capite bene il perché del nome “casa del popolo”.
Il terzo nome utilizzato è la “casa del Pinguino”. Durante le vacanze estive scolastiche era, per forza di cose, il periodo in cui la compagnia poteva trovarsi più spesso. Non vi dico quante estati abbiamo fatto a patire un caldo infernale nella mia stanza. Nemmeno il mega ventilatore che ci puntavamo addosso, in funzione continuamente, era sufficiente a vincere la calura. Fu così che, per ovviare a questo problema, io e la mia famiglia decidemmo di installare un Pinguino refrigeratore nella mia camera. Quei simpaticoni dei miei amici, per ironizzare sul fatto che venissero a casa mia solo per rinfrescarsi e, di certo, non per venire a trovarmi, da quel momento in poi cominciarono a chiamarla la “casa del Pinguino”. Casa del Pinguino è stato per anni anche il nostro gruppo Facebook che usavamo per organizzare serate, uscite, compleanni, ultimi dell’anno e via dicendo. O perlomeno partivamo con questo presupposto, ma poi si finiva sempre a postare cagate o a fare gli scemi. Famosi su questo gruppo i nostri sondaggi in cui, ad esempio, per decidere cosa cucinare per l’ultimo dell’anno (ebbene si, alcuni di noi si improvvisavano pure cuochi), votavamo quale tipo di pasta la maggioranza volesse mangiare.
Dai gruppi Facebook siamo passati ai gruppi Whatsapp. Gruppi che, anche in questo caso, hanno cambiato diversi nomi. Alcune persone venivano aggiunte, altre si toglievano e altre ancora, dopo averlo abbandonato, ritornavano. Molto spesso quello che stava accadendo nel gruppo vero e proprio si rifletteva nel gruppo virtuale: gente persa per strada durante gli anni, alcuni di questi ritrovati e altri nuovi aggiunti. Insomma, in tutto questo tempo non ci siamo fatti mancare nulla. Anche i social possono raccontare una storia di una compagnia di amici, ma accanto a quelle virtuali ci sono le storie reali. Quelle che i quattro muri della mia stanza conoscono bene e che ora vi racconto.

Facciamo un partitino?

C’è stato un tempo in cui le mie mani avevano assunto la forma di un joystick. D’altronde non potevo di certo eccellere nello sport, quindi mi buttai a capofitto sui videogiochi. In particolare sulla Playstation. La mia dipendenza da essa iniziò nell’ormai lontano 1999. Si può dire che fu questa mia passione, condivisa con i miei amici, a gettare le fondamenta per la costruzione della compagnia. Tutto cominció così: tre gatti che si riunivano a casa mia per “fare un partitino”.
Intanto il tempo passava, le tecnologie avanzavano, cambiavano le console, miglioravano i videogiochi e gli adepti del sacro culto dell’intrattenimento videoludico, bazzicanti per casa mia, non facevano che aumentare. Sapete qual era la mia gioia più grande durante l’adolescenza? Sopravvivere a scuola durante la settimana fino all’arrivo del sabato, in cui potevo finalmente andare da mia nonna e dedicarmi interamente al pomeriggio videoludico con i miei compari. I compiti, lo studio e i problemi erano tutti rimandati al giorno dopo (chissà perché poi a scuola andavo da cani). Con il senno di poi, probabilmente, qualche problemino lo avevamo in quanto, molto spesso, il pomeriggio iniziava alle 15 e finiva alle 23. Non dico che giocassimo ininterrottamente, ma quasi. Ogni tanto partivano le ostiate di mia madre che mi accusavano di giocare troppo e di studiare poco, (mi duole ammetterlo, ma aveva ragione) però io non ne volevo sapere. In cuor mio speravo che mia madre facesse questo tipo di ragionamento: “Il povero cristo non può giocare a pallone, che si ammazzi pure di videogiochi!”.
Se qualcuno fosse entrato nella mia stanza, verso sera, durante uno di quei tipici sabato, si sarebbe trovato di fronte una scena assai singolare: cinque o sei “gufi” dagli occhi spalancati e fin troppo rossi, non a causa dell’effetto della cannabis (probabilmente sarebbe stato più salutare), bensì dalla troppa Playstation.
Se dovessi fare un excursus su tutti i videogiochi che abbiamo fatto passare non basterebbe un libro però, giusto per darvi un’idea, ci sono due grandi periodi che abbiamo trascorso giocando, più o meno, agli stessi videogiochi. Quello dei giochi di guerra in cui, allegramente, ci sparavamo addosso l’un l’altro (fino adesso nessuno di noi è diventato un serial killer, io solo perché ho delle difficoltà fisiche). E quello di Guitar Hero. Un gioco in cui si poteva mettere su una band fittizia con tanto di basso, chitarra e batteria fake. Molto spesso alla voce, con tanto di microfono, c’era il sottoscritto. Lo scopo era suonare pezzi esistenti e, fortunatamente, il nostro unico pubblico, quasi sempre, era solo mia nonna nella stanza accanto.
Era naturale che, diventando adulti, tutta questa magia non potesse durare per sempre. O comunque con la stessa frequenza degli anni precedenti. Ho provato a passare il testimone da gamer ai miei fratelli, ma a parte qualche saltuaria partita alla Play, dettata perlopiù dalla noia, l’hanno gentilmente rifiutato. Evidentemente ci tengono alla forma naturale delle loro mani.
Adesso, ciò che mi è rimasto di tutte quelle ore passate davanti ad uno schermo (oltre ai danni neurologici che si evincono da quello che scrivo) è un joystick “appeso ad un chiodo” in camera mia. Un joystick intriso di sudore, di incazzature per le sconfitte (in particolare le mie), ma anche di divertimento e di ore piacevoli passate in compagnia.

L’arrivo della patata

Se la Playstation ha messo le basi per la costruzione della compagnia, di certo, un altro evento ha contribuito notevolmente al suo arricchimento: l’arrivo della patata o, se vogliamo dirla in maniera più fine, l’arrivo delle ragazze nella compagnia. (anche perché la patata con me non si è ancora fatta vedere mannaggia!) Se fino a quel momento, con solo maschietti nella casa del popolo, i rutti, le scorregge, le parolacce e i doppi sensi sconci la facevano da padrone, con l’arrivo delle ragazze i rutti, le scoregge, le parolacce e i doppi sensi sconci continuarono, inesorabilmente, a farla da padrone. Forse non da subito, ma comunque in brevissimo tempo.
Stampata nella mia mente c’è la prima volta che le ragazze varcarono la soglia della mia stanza, portando scompiglio nell’equilibrio testosteronico guadagnato fino a quel momento. Se non ricordo male era estate e arrivarono in tre. Timide e ridacchianti, probabilmente per il  nervosismo. Con un tremulo “ciao” si sedettero tutte sul mio divano. All’epoca pure il sottoscritto era afflitto da timidezza patologica (adesso invece tendo a sputtanarmi di fronte a tutto il pubblico di Facebook). La mia capacità di intrattenimento degli ospiti sconosciuti, soprattutto femminili, era pari a quella di un’iguana con la dissenteria: praticamente nulla. Anche se con me erano presenti i soliti amici, le tre ospiti mi avevano catapultato fuori dalla mia comfort zone in un battibaleno. Se una ragazza sola poteva essere ancora gestibile, tre erano decisamente troppe! Realizzai immediatamente che non avrei ottenuto nessun aiuto dagli altri maschi presenti. D’altro canto interpretavo io il ruolo di padrone di casa e di conseguenza, principalmente, toccava a me intrattenere le ragazze. Ovviamente questo non stava accadendo e l’imbarazzo continuava a salire. Non mi restava altro da fare che attuare una soluzione drastica: la fuga! Mi inventai di aver bisogno di andare in un’altra stanza e mi feci accompagnare da un amico. Una volta lontano da orecchie indiscrete, guardai negli occhi il mio amico e molto direttamente gli dissi: “Ma quand’è che vanno via queste?!” (erano lì da pochissimo). Sono passati diversi anni da questo episodio e la mia memoria potrebbe far cilecca, ma, se non sbaglio, al mio ritorno nella mia stanza le “tipe” erano sparite. Forse, avendo notato che il padrone di casa si era dileguato, avevano deciso pure loro di tagliare la corda. Sicuramente non ci feci una bella figura, ma in breve tempo le tre “tipe” diventarono mie amiche e una presenza fissa durante i ritrovi con la compagnia. Con gli altri maschi, tutt’ora, ironizziamo sul fatto che questo episodio potrebbe essere definito come “l’inizio della fine”, facendo coincidere l’arrivo delle ragazze nella compagnia (ovviamente non si fermarono a tre) con l’arrivo dei problemi. La risposta delle ragazze, dal canto loro, è che, in realtà, si trattò della salvezza dal nostro delirio testosteronico. Chi ha ragione? Le ragazze ovviamente! (si sa che, nel dubbio, è sempre meglio lasciargliela). Ironia a parte, quel che è certo è che fu un punto di svolta e contribuì al delinearsi della “casa del popolo”. Poi, sapete quante volte mi sono ritrovato, letteralmente, a pregare che delle ragazze entrassero in camera mia? Innumerevoli! Ammetto di essere stato esaudito, anche se in parte. Entrate ci sono entrate e parecchie anche. Sapete qual è l’unica cosa che faccio con loro? Lo scemo. Però adesso almeno ci parlo e le intrattengo, probabilmente anche un po’ troppo. In quanto al resto…beh, si sa, la speranza è l’ultima a morire.

To be continued…

Mattia Mutti