QUANDO TUTTO INIZIA

<< Caro Sig. Guadagni,

Ella sa con quanto cuore io l’abbia seguita nella sua disperata battaglia, per cui sarà più facile a Lei immaginare che a me descrivere con quanta gioia io partecipi alla manifestazione in cui Ella, ufficialmente, consacra la Sua vittoria.

Tenacia, fede, ferrea volontà e sacrifici di ogni genere sono stati alla base di questa Sua realizzazione che è festa del lavoro e trionfo della fede. Quando della propria attività se ne fa un apostolato, come ha fatto Lei, inteso soprattutto a lenire i patimenti di chi soffre, il Signore non abbandona perché ciò costituisce la preghiera più accetta e quella che giunge direttamente al Suo cuore. La ringrazio del cortese invito ad intervenire alla cerimonia, ma mio malgrado, debbo rinunciarvi, poiché le mie condizioni fisiche (benché disponga di un Suo efficacissimo apparecchio di protesi) non mi consentono, in questa stagione inclemente, di avventurarmi in un viaggio tanto lungo e verso il nord. Sarò presente spiritualmente con i voti fervidissimi di ogni migliore fortuna. Accolga il mio saluto augurale. >>

Su carta intestata ingiallita dal tempo il Colonnello Renato Allodi, segretario particolare della presidenza dell’Opera Nazionale per gli Invalidi di Guerra, risponde nel marzo 1954 a Giovanni Guadagni. Sono i giorni frementi dei preparativi per l’inaugurazione della nuova, moderna e più ampia sede di Viale Gorizia a Mantova e quell’attività, espressione di dedizione totale per una missione morale e sociale, ricca di coraggio e di sguardo rivolto all’innovazione, era ad un importante e meritato punto d’approdo.
Là, con le radici affondate in un terreno fertile di idee e rami rigogliosi allungati verso nuove pagine da scrivere si sarebbero susseguite altre due generazioni di artigiani.
Riavvolgendo il nastro, la vita “sempre in salita con onestà” di Giovanni Guadagni inizia nel 1913 a Parigi, da mamma Henriette, francese, e papà Emilio, italiano. Il rimpatrio in Italia per il primo conflitto mondiale avviene nel 1914, su un carro bestiame con solamente un sacco di biancheria e la dolorosa perdita del ristorante di famiglia. Arrivano a Sabbioneta e poco dopo lo zio Enrico, fratello di Emilio, parte per il fronte. Lì tre anni dopo muore la mamma Henriette e nel 1919 Giovanni si trasferisce con il papà a Mantova, che diverrà cuore e culla di una professione che gli scorre nelle vene. Emilio, con il suo diploma alla scuola Arti e Mestieri di Parigi e una manualità speciale nella lavorazione del legno, è qui che apre un piccolo laboratorio di protesi e calzature per invalidi di guerra, spronato da un bisogno sociale si, ma anche da un certo spirito imprenditoriale che mette a fuoco l’enorme e drammatica domanda e la scarsa – se non assente – offerta. Questa sua predisposizione a riprodurre cose e persone con paziente lavoro di scalpello e di bulino – raccontarono più avanti di lui i giornali – lo avrebbe un giorno portato verso la professione che meglio avrebbe rivelato le sue doti.
La Prima Guerra Mondiale lasciò solo in Italia circa 470 mila mutilati e invalidi di guerra, 550 solo a Mantova e provincia. La loro condizione sociale e insieme l’ascolto delle loro aspirazioni, furono disciplinati con la legge del 12 luglio 1923: mutilati e invalidi diventavano figure giuridicamente riconosciute, distinguendo coloro che avevano perso la capacità di provvedere a sé stessi (destinatari di pensioni e assegni supplementari) e quelli che ancora potevano lavorare e vivere in autonomia, ai quali spettava di diritto il collocamento obbligatorio presso imprese pubbliche e private. Nessuno avrebbe mai placato le ferite psicologiche lasciate dal conflitto, ma la possibilità di curare quelle fisiche restituendo la mobilità a braccia e gambe e una dignità umanamente e socialmente riconosciuta al corpo nel suo insieme era il primo enorme passo da fare per applicare concretamente quella legge.
Il tempo diede ragione ad Emilio e alla sua impresa: il fuoco in lui s’accende mentre, nel corso della guerra, ha occasione di lavorare all’ospedale Alessandri di Verona costruendo arti artificiali in legno. Subito dopo, con il Cavalier Gaetano Lombardi come socio, apre a Mantova la sua prima bottega artigiana: stava scrivendo un pezzo della storia italiana di un settore che richiedeva non solo un’alta specializzazione in termini di manodopera, ma necessitava anche di disegni, prove, sperimentazioni, dedizione e studio sul campo.
L’immaginazione al servizio di una vita migliore e più dignitosa per amputati e malati, per Emilio – e di riflesso per Giovanni, che nel frattempo cresceva osservando – era l’olio che muoveva la meccanica delle protesi per arti inferiori e superiori, era la flessibilità e il sostegno nei cinti erniari, la struttura di tutori per arti e tronco, stava nella comodità delle calzature su misura e nel corpo che, aiutato, poteva tornare ad aspirare alla sua naturale funzione.
Questa prima importante parte della storia di Ortopedia Guadagni è custodita nelle comunicazioni, nelle lettere, nei documenti, negli appunti tra Emilio e Giovanni. “Caro Giovanni, ti spedisco la regola per poter tagliare con più sicurezza, spero capirai come te l’ho illustrata nei vari modelli. Bacioni, tuo Padre Emilio”. Su uno dei tanti fogli a quadretti, con una bella calligrafia mescolata a disegni con tratteggi precisi e frasi battute a macchina, prende forma il modello di un busto con calcoli, misure e proporzioni. 

Un piccolo tesoro di artigiana memoria e sapere tramandato, appreso con la pratica. Classe 1891, Emilio a Parigi aveva scelto l’indirizzo di scultore-intagliatore ma si era dedicato anche allo studio del violino, guadagnandosi anche un premio riservato agli studenti di nazionalità straniera, perché il padre Massimo non aveva rinunciato alle radici italiane. Fu quella formazione artistica e manuale a permettere a lui e al fratello Enrico di mantenersi a Sabbioneta: insieme, prima della guerra, suonavano, restauravano statue lignee e costruivano mobili. Poi era arrivata l’ortopedia, affascinante sublimazione della lavorazione di legno, metalli, cuoio e tessuti tra studio anatomico e funzionalità. 

Le lettere di ringraziamento per quell’artigiano di Mantova sono toccanti e sincere. Camillo Vacchelli nel 1926 scrive “è con animo sinceramente grato che le manifesto la mia riconoscenza per il vero amore che presta nell’eseguire i suoi sempre riusciti apparecchi. Non potevo quasi più camminare e mi era dolorosissimo mettere i piedi a terra. Sono rinato a nuova vita, faccio lunghe camminate senza dolori né mi stanco”.

Emilio con la nipotina Amelia a passeggio nel centro di Mantova nel 1944.

 

Nelle lettere che arrivano a noi è racchiuso un mondo: troviamo diversi livelli di istruzione, differenti contesti sociali, professioni, molteplici storie di problemi fisici e motori e in tutte, nessuna esclusa, lo stesso percettibile sentimento di gratitudine intriso di un autentico stupore per quello che un busto, un tutore, una protesi o una calzatura riuscivano a compiere. 

Ogni presidio ortopedico costruito e venduto si rivela per la ditta di Emilio Guadagni anche un perfetto strumento di marketing e promozione indiretta, la migliore per quell’attività che doveva vivere di risultati tangibili e protesi miracolosamente scomparse sotto agli abiti di sempre. Siamo in un’epoca ancora lontanissima da internet, che solo nel 1954 si sarebbe affacciata ad una comunque elitaria (e stupefacente, anche commercialmente parlando) comunicazione televisiva.
La voce di quei prodotti così ben fatti si diffonde tra i medici specialisti, tra i pazienti, tra i compagni di trincea, tra i malati in famiglia, in paese, in città. Come in quella lettera di Roberto Ragazzoni del settembre 1940, che aveva promesso ad Emilio “continua propaganda per gli arti ortopedici, che sono meravigliosi”. Nel paese di Villadose c’erano due amputati di gamba che avevano assolutamente bisogno di nuovi arti e si erano rivolti a lui dietro consiglio del primario chirurgo dell’ospedale locale. Una “riconoscenza al caro buon Emilio che in poco tempo mi ha messo in condizioni di camminare, facendomi due arti leggerissimi e tecnicamente perfetti, ridonandomi la speranza della vita e la tranquillità nella mia famiglia”. In calce, i “riconoscenti saluti” sono estesi al figlio Giovanni, che “con costanza e passione segue le orme del padre nell’arte ortopedica”.