Sguardi

Non penso di sbagliare nel dire che noi disabili, nel corso dei nostri spostamenti in quel magico mondo chiamato “fuori”, siamo abituati ai più svariati tipi di sguardi.

Per me quelli migliori sono quelli dei bambini. Non denoti in loro quella compassione (alcune volte più velata altre volte meno) tipica di tanti adulti; nei bambini prevale semplicemente lo stupore. Molti di loro, ad esempio quando camminano mano nella mano con i genitori, fermano lo sguardo e continuano a fissarmi, alcuni addirittura con la bocca aperta, fino a quando è loro possibile.

Forse la domanda che frulla in quelle testoline è: “ma che ci fa quello su quell’affare con le ruote?”.

È bello pensare che basta cambiare punto di vista e una carrozzina, che denota un certo significato, può trovarne un altro ed essere motivo di fascino per alcuni che la guardano.
Però ci sono anche altri sguardi, piuttosto fastidiosi, che vengono da persone adulte: sono sguardi palesemente indagatori del fatto che io abbia o meno problemi cerebrali oltre che fisici.

Ho notato che sembra esserci da parte di alcune persone la tendenza a considerare la carrozzina come sinonimo di disagio mentale oltre che fisico.

Basterebbe guardarsi un po’ attorno per capire che non è sempre così. Mi è anche capitato, un paio di volte, che persone che non conoscevo direttamente, ma i miei familiari si, andassero oltre gli sguardi indagatori e ponessero una domanda, la cui risposta riguardava me, che ho sempre trovato abbastanza particolare: “È normale?” così addirittura senza soggetto; forse pensavano che mettendo “lui” la domanda fosse un po’ troppo diretta e che quindi fosse meglio lasciarla così, rivolta alle persone che erano con me in quel momento. E questo mi ha fatto pensare a quale sarebbe potuta essere la risposta giusta da dare in quel frangente. Perché se avessi detto “si lo sono”, si poteva pensare che in realtà non lo fossi e che quindi non riuscissi a distinguere tra essere “normale” o meno, e la mia fosse una risposta casuale.

Ironia a parte, ho messo normale tra virgolette di proposito, perché la normalità è un concetto usato spesso, ma allo stesso tempo assai particolare.

Guardiamo la definizione tratta da Wikipedia secondo cui “l’aggettivo normale sta solitamente a indicare la mancanza di fattori eccezionali”.
Non so voi, ma per me non è poi così male possedere qualche fattore eccezionale, diverso dal solito. Se volessi trovare un momento della mia vita in cui mi sono sentito di aver fatto un salto di qualità è stato proprio quando ho cominciato ad accettare la mia diversità, invece che temerla.
Ed è stato li che ho cominciato a vedere chiaramente quanto spesso utilizziamo concetti come quello di normalità e di normale per categorizzare e semplificare una realtà altrimenti troppo complessa e particolare da capire al momento. Di come allo stupore e alla voglia di conoscere (caratteristica solitamente preponderante nella nostra infanzia) molto spesso sostituiamo il giudizio.
Ecco che allora, in situazioni di questo tipo, è facile giudicare come diverse e addirittura perseguitare qualcuno semplicemente perché ha preferenze sessuali, culturali o religiose differenti dalle nostre; o (novità dell’ultimo periodo) addirittura stili alimentari diversi.
È interessante notare che a questo proposito molto spesso succeda il contrario: vegetariani o vegani diventati veri e propri estremisti della loro posizione. È un madornale controsenso secondo me, fuggire da un certo tipo di discriminazione per poi crearne una nuova, cercando di assoggettare gli altri alla nostra nuova posizione. Proprio nei giorni in cui sto scrivendo questo articolo, occorre il ricordo di uno dei periodi più tristi e tragici della storia umana.L’olocausto può farci da testimonianza su come il conformismo e l’adeguamento alle idee altrui, abbia portato alla pianificazione e alla riuscita di un genocidio sistematico di 6 milioni di persone.

Diventa lampante il fatto che nessuna posizione dovrebbe mai varcare il limite del danno, della violenza e della sofferenza arrecata alle altre persone.

Questo argomento avrebbe bisogno di una trattazione a parte, sicuramente non esauribile in un articolo di questo tipo, ma ciò che mi preme sottolineare è di come la mia definizione di normale sia, fortunatamente, cambiata nel corso degli anni e di come adesso definisca normalità semplicemente ciò che siamo abituati a vedere. E ahimè molto spesso ciò che vediamo non è più funzionale, è sbagliato o comunque incompleto: ecco perché andrebbe cambiato.
E come si fa a cambiarlo se non partendo da chi da forma e significato al mondo? Noi stessi. Basta categorizzare e semplificare così assiduamente le cose. Impariamo ad accettare questa imprevedibilità e diversità insita in ogni cosa e in ogni persona. Magari qualche nostra convinzione cadrà lasciandoci momentaneamente spaesati, ma farà posto a qualcosa di nuovo, migliore o comunque più nostro di quello che siamo abituati a sentire e vedere. Quindi d’ora in poi se mi dovesse ricapitare di sentire qualcuno chiedersi se sono normale, la mia risposta sarà sempre:

NO SONO DIVERSO e per questo motivo non voglio una vita normale, ma una vita che sia mia.

Mattia Mutti